
Not giving a fuck about not giving a fuck
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Fabri Fibra è una delle colonne portanti del rap italiano.
Così ci siamo beccati in studio da lui e abbiamo fatto due chiacchiere assieme, per farci raccontare il ruolo delle adidas Superstar e capire come hanno cambiato il nostro modo di pensare le sneaker.
È partito tutto da uno dei primi album dei Beastie Boys, “Licensed to Ill”. Quello che sulla copertina ha un aereo che si schianta, tipo mozzicone di sigaretta, e un sound incredibile, mai sentito. Per me è stato uno shock: alla fine ero solo un ragazzino di 10 anni, immerso nella noia della provincia italiana.
Non sapevo nemmeno chi fossero questi Beastie Boys; li ho visti per la prima volta a Deejay Television, avevano inserito uno dei loro video nella sigla finale. Riprese con il fisheye, tute adidas e catenazze grosse con gli stemmi delle macchine: era come guardare un film. Mi sono sembrati subito fighissimi.
In parte, ma di un artista ti arrivava prima la sua musica. Però, per esempio, il primo flash che mi viene in mente dei RUN DMC sono loro seduti con le gambe giù da un ponte, e le adidas Superstar a penzoloni. Quindi musica e stile erano già collegati, ma è normale. Loro poi le mettevano sempre: in strada, in studio, ce le hanno su anche sulla copertina di uno dei loro primi vinili. Ma qui erano introvabili, dovevi andare in America per recuperarne un paio.
Infatti Jovanotti, che si rifaceva all’immagine dei Beastie Boys e dei RUN DMC, metteva un sacco di adidas super fighe perché era già stato a New York. Questo dimostra la forza della pubblicità e della culture: più non riuscivi a trovare una cosa, e più sentivi il bisogno di averla. Nel mio caso, è successo con le Superstar.
Si, le avevo già viste nelle copertine o nei video musicali, ma anche nei graffiti. Disegnavo qualcosa pure io in quel periodo, e notavo che tanti le piazzavano in mezzo al lettering, alle scritte. Poi vedevo i writer con le Superstar e rosicavo perché in negozio non c’era mai il mio numero. Erano diventate un mito.
Quando sono riuscito a recuperarne un paio, le classiche adidas Superstar bianche con le tre strisce nere, mi sentivo fighissimo. Anche se ero una capra a fare i graffiti [ride, ndr].
Questa è una storia divertente. All’inizio potevi trovarle solo nei negozi di articoli sportivi, che vendevano canoe, mute da sommozzatore e tende. In quello di Senigallia c’era un angolino dedicato alle scarpe: appena sono arrivate, ci siamo fiondati tutti lì. Ho dovuto aspettare mesi prima che arrivasse il mio numero, ma alla fine ce l’ho fatta.
Perché volevo qualcosa che non avesse nessuno. Daniele, il proprietario di The Tattoo Shop, aveva appena fatto un viaggio in Thailandia, dove la gente di strada si tatua i loghi dei brand di lusso e orologi costosi, tutte cose che non possono permettersi. C’era qualcuno con il Trefoil, ma io volevo un disegno che non si vedeva in giro, un paio di sneaker. E certe scarpe sono e resteranno sempre un’icona, come le Superstar. Direi che ci ho preso, sono ancora qui a parlarne [ride, ndr].
Beh alla fine io sono sulla scena dagli anni ‘90 e le Superstar c’erano già, in più tutti e due riusciamo ad essere ancora rilevanti nei nostri ambiti.
È figo come paragone, me lo prendo tutto.
Beh, questa è facile: le Superstar di Jam Master Jay, pace all’anima sua.
Non le ho mai messe perché voglio tenerle così come sono, immacolate. Sono un paio da collezione.
Ogni ambiente sente questa necessità di passare al prossimo; i trend e le mode durano sempre meno, anche nella musica. Ma a volte il tempo si ferma. Succede quando il pubblico, che è sempre affamato di novità, capisce di essere davanti a un prodotto talmente iconico che diventa un classico, il metro di paragone per giudicare tutto quello che viene dopo.
Ecco, con le Superstar è andata così.
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