


SPECTRUM R.A.D. with Hatory Pabllo
Nato e cresciuto a Setúbal, Hatory Pabllo (@internet_is_a_lie) è un self-made artist con uno stile riconoscibile ma sempre in evoluzione, alimentato dal rapporto diretto tra vita privata e vena creativa. Filippo Minelli (@filippominelli) l’ha intervistato per noi, portando a galla i dettagli di un’arte molto personale, nel senso letterale del termine. Una chiacchierata che tocca temi come gli anni passati a San Paolo, la passione per lo streetwear e il ruolo inaspettato della fede.
Q. Dopo il boom turistico degli ultimi anni, in tanti associano il Portogallo alle piastrelle smaltate, le azulejos, e alla sua vita notturna. Ma negli anni novanta le cose erano diverse.
A. Il Portogallo degli anni novanta e duemila non è quello di oggi. Io sono nato a Setúbal nel 1987 e sono cresciuto a Margem Sul, una penisola a sud di Lisbona; un posto difficile per colpa delle droghe, con tanti problemi sociali e un tasso di criminalità molto alto. Chi vive in Portogallo sa di cosa parlo.
Q. La prima volta che ci siamo visti mi hai parlato dei tuoi anni a San Paolo, di quanto sono stati importati per la tua crescita, sia a livello personale che artistico. So cosa significa sentire l’energia di una città appena atterri, sentire il suo respiro. Qual è la stata la cosa più speciale per te?
A. San Paolo ha cambiato il mio modo di pensare alla vita, mi ha aiutato a capire quali sono le mie priorità. Ma per immaginare questo shift dobbiamo tornare a Setúbal. Crescendo in una città così piccola, ho realizzato che non volevo una vita come quella; mi sentivo diverso dalle persone che avevo attorno. Credo che la mia fascinazione per l’estetica e i dettagli arrivi da qui, dalla mia voglia – forse meglio dire “bisogno” – di trovare qualcosa di diverso, qualcosa in cui potessi finalmente riconoscermi. Così ho iniziato a cercare altrove, viaggiando ovunque per trovare persone con i miei gusti. E qui entra in gioco San Paolo: lì ho trovato ragazzi con sogni, vite e storie simili alla mia, gente determinata e con tanta voglia di riscatto. Un proverbio dice che “I fiori crescono nel fango”; ecco, a San Paolo ho capito di essere fortunato, e mi sono avvicinato a Dio. In Brasile mi sono successe un sacco di cose che ti possono capitare solo lì, e una di queste è credere. Il Brasile è magico.
Q. Restiamo sul tema dell’energia. Tu hai sempre seguito le tue passioni, fino a quando non sono diventate il tuo modo di vivere; ancora oggi però sembra che non ci sia distinzione tra quello che fai e la tua vita privata.
A. Sono convinto che tutto quello faccio sia connesso. Siamo quello che siamo per un motivo preciso, e io sono me stesso perché così ha voluto Dio. Le risposte alle mie domande portano sempre alla fede: da lì arrivano il mio gusto estetico, il mio stile, la mia identità. Le esperienze che faccio nella vita terrena sono un dono, e credo ci sia qualcosa di soprannaturale nella mia arte; ho sempre sentito una certa vocazione per la creatività, che fosse nel modo di vestire o semplicemente scrivendo il mio nome in giro.
Q. Ti sei sempre sentito così?
A. Sentivo questo tipo di energia già ai tempi della street life, a maggior ragione adesso che sono super focalizzato su una missione. Alla fine le mie opere sono sono brandelli della mia identità, della mia visione, sono legati alla mia identità e al mio modo di vedere le cose. In questo momento della mia vita, sento che tutto quello che faccio è arte, ma era così anche quando non sapevo cosa stessi facendo.
Q. Hai iniziato a fare graffiti prima che diventassero un fenomeno globale. Com’è iniziata la cosa?
A. Ho iniziato a scrivere il mio nome sui muri, “Bio”, prima ancora di sapere cosa fossero i graffiti. Era il 1997, all’epoca non c’era internet e abitavo in un quartiere di Setúbal che si chiama Peixe Frito (“pesce fritto”). Non giravano informazioni, ma nel quartiere vedevo sempre gli stessi nomi scritti in giro, tra cui quello di Tètè e di altre leggende. Così ho iniziato a scrivere anch’io il mio, fino a quando un ragazzo arriva e mi dice che quello che sto facendo si chiama graffiti, è legato alla cultura hip hop, e viene dagli Stati Uniti.
Q. In pratica hai dato retta al tuo istinto.
A. Esattamente, è stato un processo estremamente naturale. Con internet è cambiato tutto, e lo dico io che non sono mai stato il writer più assiduo, ne quello più skillato. Prima i graffiti erano un lifestyle che ti assorbiva 24/7, era questa la cosa figa. Anche per gente come me: ho sempre dipinto per sviluppare il mio stile, creare una cifra artistica unica e riconoscibile. Quello è stato un gran bel periodo, mi sento fortunato ad aver vissuto quel momento: la gente era libera, sciolta, sperimentava di più. Invece oggi – e qui arriviamo al mio nome su Instagram – tutto è facilmente manipolabile, soprattutto se paragonato all’epoca pre-internet.
Q. Questione sneakers e hype: ti piace vestirti in un certo modo. Metti solo brand e sneaker giuste, due elementi che compaiono anche nelle tue opere. Come ha iniziato a piacerti tutto questo mondo?
A. In ogni fase della mia vita sono sempre stato affascinato dai vestiti. Ho fatto cose pazze per avere due soldi in più, che finivano regolarmente in scarpe o collezioni varie; fanno parte della mia ricerca estetica, ma è anche un modo per far vedere subito chi sono. Credo ci sia qualcosa di poetico e artistico nei vestiti, anche per questo la selezione e la ricerca sono due step fondamentali, nonché i più divertenti. Sono super fan del fashion giapponese e dei pezzi vintage di BBC, Ice Cream, Evisu, Bape, ma anche di certi brand europei. E poi viaggio molto, ogni volta che sono all’estero assorbo trend e influenze, è una cosa che mi piace fare e che ritengo super importante.
Q. A un certo punto sei passato dai graffiti ai tatuaggi.
A. I tatuaggi sono arrivati in un periodo in cui ho iniziato a pensare a cosa mi sarebbe piaciuto fare con i miei disegni. Avevo uno stile cartoon, molto semplice e poco adatto ai tattoo dell’epoca, ma grazie al lavoro di Fuzi questo stile è stato sdoganato anche nei tatuaggi. Così mi sono trasferito a Londra, dove ho tatuato per due studi diversi. In quegli anni avevo la fissa di vivere dei miei disegni, ma arrivavo pur sempre dal mondo dei graffiti, dove la regola è non vendere nulla. Anche per questo mi sono concentrato sul lavoro in studio e sulle tele, dove riesco a esprimere meglio il mio potenziale. Certo, tatuare mi da comunque la possibilità di viaggiare in tutto il mondo e incontrare gente che riconosce il mio stile. Sempre parlando di tattoo, mi piace come fanno le cose a Londra, che poi è la città dove si trovano i maggiori collezionisti della mia arte.
Q. Torniamo un secondo sulla pittura e sulla fotografia. Due ambiti a cui lavori parallelamente, giusto?
A. Esatto, sono due cose che porto avanti assieme. La fotografia mi permette di rendere immortali momenti effimeri, destinati a durare lo spazio di pochi minuti o poche ore; ho iniziato fotografando i miei graffiti con una macchina analogica. Poi in Brasile ho attraversato una fase in cui pensavo che tutto dovesse essere immortalato; ho pubblicato un libro che spiega come vedevo le cose in quegli anni. Oggi credo che esistano diversi modi per rendere immortale un’idea o un pensiero: tatuaggi, vestiti, musica, dipinti.
Q. Un po’ come il libro che Jeff Koons ha pubblicato mentre stava con Cicciolina, quello di cui parlavamo qualche giorno fa.
A. Jeff Koons è un artista geniale, uno dei maestri contemporanei, ma quello che mi affascina di più è la sua capacità di catturare l’essenza delle cose, il suo occhio assoluto per l’estetica.
Q. Mi piace questo interesse per l’estetica delle cose, a come appaiono, un concetto anche abbastanza lontano dalla semplice bellezza. Dio mi ha concesso un talento, quello di essere me stesso, e mi ha creato così per un motivo. A. Tutto quello che faccio deriva da questa convinzione, inclusa la ricerca estetica e il mio modo di fare arte. Oltre ad avere degli obiettivi da raggiungere, credo che avere un proposito sensato e una linea estetica siano le cose più importanti oggi. Non ho il potere di cambiare il mondo in generale, ma posso fare qualcosa per cambiare il MIO mondo. Insomma, alla fine ho solo scelto di vivere appieno quello che sono.
SPECTRUM R.A.D.
Letteralmente Resident Artist Decoder, cioè un progetto con cui vogliamo dare voce alla creatività in ogni forma, e alimentare il discorso pubblico su alcuni temi d’attualità. Lo facciamo coinvolgendo persone che promuovono i nostri stessi valori: inclusività, multiculturalità, rispetto dell’altro. Più nel dettaglio, ogni due mesi Spectrum dialoga su questi temi con un creativo internazionale, che realizza un artwork custom e una shopper dedicata, distribuita esclusivamente in store.